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Contro le buone intenzioni. L’ombra del moralismo sulle attività D&I delle organizzazioni

Articolo Contro le buone intenzioni

Contro le buone intenzioni

L’ombra del moralismo sulle attività D&I delle organizzazioni

Ci sono dati che sostengono che intervenire sull’inclusione in azienda aumenti l’innovatività, migliori la collaborazione, e favorisca migliori performance economiche. E ci sono anche dati che dicono che le aziende inclusive piacciono, ovvero che la reputazione di inclusività di un brand abbia un peso (crescente presso le nuove generazioni) nelle scelte di consumo dei clienti.

Ovvero: ci sono dati che dicono che intervenire su diversity & inclusion paga.

E verrebbe da dire: bene, così magari aziende e organizzazioni si danno una mossa. Invece no: per delle ragioni in parte misteriose non è così semplice.

Se vi è capitato di ascoltare voci di corridoio in aziende che si decidono finalmente a fare qualcosa (qualsiasi cosa!) sull’inclusione, o anche se vi capita di passare troppo tempo su LinkedIn, è probabile che vi siate imbattuti in una delle molteplici forme della seguente obiezione:

“E certo, adesso che conviene e ne parlano tutti si mettono a fare l’inclusione anche loro”.

Un bel respiro. Facciamo finta che non abbiamo cominciato a fumare alle superiori perché lo facevano tutti; facciamo finta che non ci siamo laureati perché sembrava l’unica soluzione plausibile; che non ci mettiamo la cravatta perché se la mette il nostro vicino di scrivania. Insomma, facciamo finta di non aver mai fatto nulla perché lo facevano gli altri, o perché andava di moda, o perché per mille motivi di contesto non si potesse fare altrimenti, e poniamo pure per ipotesi di aver svolto nella nostra vita solo azioni genuinamente spontanee.

E ora proviamo a elevarci un po’ più in alto (ma poco) e chiediamoci: perché mai quando si parla di diversity & inclusion è così importante il perché si fa qualcosa? Perché è così importante che il movente sia virtuoso? Perché, insomma, devono per forza esserci dietro delle buone intenzioni?

“Perché la morale è intenzionale” risponde con Kant l’attento lettore. “Le cose giuste vanno fatte perché sono giuste, altrimenti…” E dopo l’altrimenti non è mai stato chiaro cosa ci fosse, ma di certo qualcosa come “non si va in paradiso”.

Ora, il caso vuole che Kant non abbia mai ricoperto il ruolo di amministratore delegato, e non sappiamo quindi se il suo approccio sarebbe stato efficace; quello che sappiamo è che la totalità (almeno a mia conoscenza) degli amministratori delegati sembrano focalizzarsi sull’estremo opposto della catena causale: i risultati.

Solo che, curiosamente, nessuno ha mai avuto da ridire su questo: sembra chiaro a tutti che per “fare business” ci si debba concentrare sui risultati. E per raggiungerli, nella storia, sono state fatte cose buone, cattive, buonine, terribili. Sono state sfidate le nostre conoscenze, è stato bucato l’ozono, sono state toccate incredibili vette creative, è stata licenziata in tronco un sacco di gente e molta ne è morta lavorando. Tutto questo in nome solo o soprattutto dei tanto agognati risultati.

Adesso succede che nella strada verso i risultati tocchi alle organizzazioni di occuparsi anche del benessere delle persone che appartengono alle minoranze. Per ragioni storiche, sociali, e quello che ci pare (dei fatti non si può che prendere atto), occuparsi del benessere di alcune persone che nel tempo sono state lasciate indietro aiuta a raggiungere i risultati. Incredibile ma vero, è così.

Ovviamente parte la corsa, e non manca chi fa finta di occuparsene, con tutti i “rainbow washing” del caso. E siamo tutti d’accordo nel dire che non si fa; e anzi ci auguriamo che per una volta la mano invisibile del mercato faccia quel che deve.

Ma poi ci sono tante organizzazioni che, a volte con tutti i limiti e le inesperienze del caso, cercano di fare qualcosa per migliorare. Magari di poco, ma provano con iniziative concrete a far stare un po’ meglio le proprie persone e a rendere più inclusiva l’aria che si respira.

Ora, se si trattasse di una qualunque iniziativa X di un’organizzazione, le possibili obiezioni sarebbero: “L’iniziativa X non può avere successo”; “L’iniziativa X ha delle conseguenze negative”; “L’iniziativa X ha un cattivo rapporto costi-benefici”. Ovvero: focus sui risultati.

Invece, siccome si tratta dell’iniziativa Y su diversity & inclusion, compare misteriosamente l’obiezione: “Le ragioni per cui fai l’iniziativa Y sono sbagliate”. Ovvero: focus sulle intenzioni. Lo fai solo per il tuo tornaconto, che poi è la stessa ragione per cui hai fatto tutto il resto; ma per la diversity proprio no, devi essere una specie di asceta insensibile alle gioie terrene.

A questo punto dovrebbe essere evidente l’irragionevolezza con cui spesso viene affrontata la questione.

Chi ha a cuore l’inclusione nelle organizzazioni, ma in generale anche in qualunque altro contesto, si auspica che il maggior numero di persone possibile agisca il più spesso possibile comportamenti inclusivi. Quindi, ad esempio, che diminuiscano le battute inappropriate sulle minoranze, o che non capiti di sentirsi dire ad un colloquio “sei sposata?”, o che una persona disabile sia messa nelle condizioni di dare il proprio pieno contributo, eccetera eccetera eccetera.

Ovviamente, questi sono risultati; e per raggiungerli, un’organizzazione deve progettare strategie, fare iniziative, scrivere policy, e tanto tanto altro.

In tutto questo, le intenzioni semplicemente non ci sono; e non ci sono per una ragione molto semplice: le intenzioni non hanno effetti. Oppure, ma il significato è identico: le intenzioni non portano risultati. Tra le intenzioni e i risultati ci sono le azioni.

Ed ecco la cosa curiosa: le azioni producono effetti indipendentemente dall’intenzione che c’è dietro. Questo vuol dire che l’organizzazione più onestamente orientata all’inclusione del mondo non ha nessuna probabilità di essere più efficace rispetto all’inclusione dell’azienda più orientata al fatturato del mondo. Purtroppo, le azioni ispirate da buone intenzioni non sono magicamente più efficaci delle altre.

La banale conclusione è che le obiezioni sensate rispetto a politiche di diversity & inclusion sono esattamente identiche a quelle che normalmente si fanno verso tutte le altre iniziative di business: non può avere successo, ha conseguenze negative, ha un cattivo rapporto costi- benefici… Il resto, tutte le considerazioni morali che troppo spesso si sentono su questi temi, sono chiacchiere – anche un po’ snob.

Believe it or not, se tutti quelli che si occupano di diversity & inclusion nelle organizzazioni fossero dei cattivoni esclusivamente orientati al risultato, avremmo aziende molto più inclusive.

 

Di Daniele Scollo

 

 

 

 

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