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A scuola di inclusione dal Sergente Hartman

A scuola di inclusione dal Sergente Hartman

A scuola di inclusione dal Sergente Hartman

Perché la storiella del “siamo tutti unici e preziosi” non ci fa bene

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti

È l’altisonante incipit della dichiarazione universale dei diritti umani, adottata ufficialmente dalle Nazioni Unite nel 1948. Non casuale la data: risulta subito evidente il nesso con i terribili fatti degli anni precedenti, in cui l’umanità “evoluta” aveva inanellato una quantità di figuracce davanti alla Storia da far impallidire medioevi, oscurantismi e colonialismi vari – se non altro in termini di metodo ed efficacia.

Come si evita che simili atrocità capitino di nuovo? La scelta è stata di tirare fuori dal cilindro la cara vecchia dignità umana: argomento già ampiamente dibattuto nella tradizione filosofica moderna, era entrato per la prima volta in documenti di carattere legislativo in occasione dell’Indipendenza Americana e della Rivoluzione Francese. Si può dire che non avesse funzionato benissimo: soprattutto nel contesto americano, in cui il principio per cui gli uomini sono tutti uguali e possiedono l’inalienabile diritto alla libertà fu considerato compatibile con la schiavitù per quasi 100 anni.

Ma forse per fretta, o per mancanza di fantasia, o in virtù dell’incrollabile e ingiustificata fiducia nel progresso morale dell’umanità, anche nel 1948 le Nazioni Unite ribadiscono lo stesso concetto; e con lo stesso piglio con cui le organizzazioni scrivono policy e codici etici: “intanto lo scriviamo, poi si vede”.

L’idea è semplice: esisterebbe qualcosa che si chiama “dignità umana”, o volendo semplificare “umanità”, che appartiene strutturalmente ad ogni uomo, per nascita. È un diritto naturale: se fai parte dell’umanità, ce l’hai, proprio non puoi liberartene.

Questa umanità ha valore, anzi addirittura è un valore: qualunque atto contro questa umanità è anzitutto immorale (ma l’Olocausto aveva appena mostrato oltre ogni dubbio l’irrilevanza di questo aspetto) e poi, una volta messo nero su bianco, illegale.

Direttamente collegato a questo è il tema dell’uguaglianza: non solo tutti possediamo questa “dignità”, ma ne abbiamo la stessa quantità. Le azioni, i ruoli, i rapporti di forza e di potere non possono intaccare questa dimensione.

Bisogna aggiungere però che assegnare agli uomini una “dignità” è sempre stato fatto; solo che di questa dignità esistevano gradi diversi. E questi gradi dipendevano dalle classi di appartenenza (che, è utile ricordarlo, esistono da sempre anche se non ci piace Marx).

In alto c’è il re, in basso il contadino (quando non lo schiavo), e in mezzo borghesi, monaci, consoli, plebei, nobili, preti di vario rango, e tanti altri animali fantastici, in ordine diverso nelle diverse società, ma sempre in una struttura gerarchica. La dignità, insomma, come anche Habermas sostiene in questo libro, è sempre stato un concetto scalare.

Ora, il tema è questo: nelle dichiarazioni che abbiamo scritto nel tempo non ci siamo limitati a dire che tutti abbiamo la stessa dignità; ma abbiamo detto che tutti abbiamo la dignità del re.

Abbiamo settato gli standard al più alto livello possibile.

Le ragioni politiche per cui è stata fatta questa scelta sono storicamente evidenti, ed è chiaro che l’intento è avere un impatto sulle leggi degli stati affinché tutelino tutti e tutte. Che questo sia un bene ovviamente non è in discussione, e sarebbe bello non lo fosse in nessuna parte del mondo.

Ciò su cui è utile riflettere però sono le “vulgate” di queste posizioni morali, le loro conseguenze culturali. Come concorre cioè questa posizione a definire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa ci si aspetta che la gente pensi o faccia? Ovvero: siamo sicuri che assegnare il massimo livello di dignità a ogni essere umano sulla faccia della terra sia la scelta migliore per costruire una quotidianità più inclusiva?

Perché in questo modo, e anche grazie alla sempre sommessamente presente idea cristiana della “sacralità della vita”, ci ritroviamo a dover pensare che ci sia una unicità e una ricchezza in ciascuno di noi. E tutti noi dovremmo essere in grado di vederla, rispettarla, apprezzarla…

Solo che poi nella vita di tutti i giorni le persone si guardano intorno e si accorgono che, semplicemente, non è così. Nessuno di noi è davvero in grado di percepire gli altri come tutti massimamente degni. Alcuni esempi di questo: le persone che muoiono in mare sui barconi, le donne relegate alle funzioni di staff nelle organizzazioni, i pensieri (espressi e non) di fronte a una donna che porta il velo, i genitori che non vogliono mandare i figli nella classe con “troppi extracomunitari” – e tanto altro può venirci in mente. Tutte cose che non succederebbero se ritenessimo davvero che tutti hanno dignità massima.

La dignità umana non è una cosa che si tocca: quindi esiste solo se tutte le persone la riconoscono. Ma è semplicemente troppo difficile, pochissimi tra noi possono essere capaci di farlo, ma di sicuro non siamo capaci di farlo come comunità.

Ma d’altra parte, quale sarebbe l’alternativa?

Fortunatamente, ci viene in soccorso la lucidità del Sergente Hartman, che in Full Metal Jacket ci tiene a dire che nel suo plotone non si fanno distinzioni tra “gentaglia come neri, ebrei, italiani o messicani”. A un certo punto, afferma: “qui vige l’uguaglianza, non conta un c* nessuno”. Ovvero, interpretando alla lettera: si conserva l’uguaglianza, ma si abbattono gli standard. Non più a tutti la dignità dei re, ma a tutti la dignità dei contadini.

Cambia davvero qualcosa? Beh, sì.

Assegnando a tutti la dignità dei re ci aspettiamo che tutte le persone imparino a pensare: tu sei degno del massimo rispetto possibile, sei speciale, esattamente come tutti gli altri, anche se ti piacciono sia uomini che donne, anche se non puoi camminare o non senti, anche se non ti riconosci con il genere assegnato alla nascita e la gente si gira a guardarti quando cammini per strada… ma ottenere questo risultato è difficilissimo. Soprattutto, non è nella natura umana pensare in questi termini: anche solo perché la divisione fondamentale con cui il nostro cervello cataloga il mondo è “amico” e “nemico”, o per il fatto che le nostre culture selezionano per noi certi modi di leggere il reale, o per il fatto che – diciamocelo – siamo tendenzialmente brutte persone.

Questa lettura presuppone una eccessiva, e in definitiva mai osservata su larga scala, bontà degli esseri umani.

Cosa succede se invece ribaltiamo questo paradigma?

Succede che le persone dovrebbero semplicemente abituarsi a pensare: tu sarai anche un maschio, bianco, etero, bello e ricco, ma questo non ti rende né speciale né migliore degli altri. Non si devono cioè convincere le persone a pensare bene dei deboli, i “diversi”, ma a pensare male dei forti, “gli uguali”. Pensare male di tutti è più facile che pensare bene di tutti.

Ciò che sostengo è che questo modo di ragionare è più semplice e soprattutto più naturale. E quindi, ce la possiamo fare. Per dirla con Tyler Durden, un altro pensatore sopraffino del nostro tempo: “Tu non sei un delicato e irripetibile fiocco di neve”.

E poi, nelle organizzazioni sentiamo spesso parlare di meritocrazia, che per alcuni sarebbe addirittura in contrasto con le politiche di inclusione: benissimo, è ora di far partire davvero tutti e tutte da zero. Questo modo di ragionare pone allo stesso livello tutti i blocchi di partenza. Tutto il valore deve essere dimostrato. Provocatoriamente si potrebbe aggiungere: non concentriamoci a superare solo i nostri stereotipi negativi (che è difficile), ma anche quelli positivi (che è più facile): e allora quelli negativi magari faranno un po’ meno danni.

Se ci pensiamo, diventa tutto molto più leggero: abbiamo un sacco di problemi, non siamo esseri naturalmente buoni, non siamo perfetti, non siamo unici; allora forse possiamo avere compassione e rispetto per gli altri, proprio perché sono esattamente come noi. Condividiamo la stessa miseria, non la stessa nobiltà.

Quelli bravi direbbero che si tratta di avere una visione tragica del mondo.

In termini più semplici si può dire: smettiamo di aspettarci atti eroici degni di santi, ma aspettiamoci da noi stessi e dagli altri solo buone azioni alla portata di esseri umani.

Di Daniele Scollo

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